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La Roby

2024-11-28 07:46

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Testimonianze,

La Roby

In tanti ti hanno voluto bene. Resterai per sempre nei nostri cuori.

Sabato 26 ottobre se n'è andata mia sorella Roberta all'età di 49 anni.
Ci ha lasciati a causa di un tumore al cervello molto aggressivo che non le ha dato scampo. Se n'è andata e non ha potuto donare niente di sé: troppi medicinali, troppe cure oncologiche, troppo di tutto aveva torturato, alterato e debilitato quel suo corpo ormai fragilissimo e indifeso. Povera la mia sorellina!
Questa è la fine di questa storia della sua vita, ma è anche una meta raggiunta da lei grazie a moltissime altre persone che con lei hanno combattuto circondandola di affetto, stringendola, abbracciandola e coccolandola.

Chi era Roberta?

La Roby era l'ottava in una famiglia di nove figli e io, che sto scrivendo, sono Michele, il secondo della lista. Eravamo nove fratelli che crescevano assieme, attraverso fasi diverse della loro vita, con esigenze completamente diverse e che per questo hanno creato tra loro dei rapporti un po' sfasati. Mi spiego: i sedici anni di differenza tra il primo e l'ultimo figlio, sono quasi una generazione e questo ha influito sul mio rapporto con Roberta.

La nostra era una delle ultime famiglie numerose del post boom economico e demografico. Un misto di origini contadine e operaie nelle quali i figli, appena terminata l'infanzia, dovevano contribuire a mandare avanti la baracca.

C'era tanto da fare a quei tempi ma non era un problema: l'importante era che tutti stessimo bene e in salute.
Per decenni è andata sempre bene. I miei erano orgogliosi di avere figli "tutti belli e sani" e che, chi più e chi meno a seconda della propria indole, si impegnavano tra scuola, sport e parrocchia.
E anche Roberta lo era!

Nei primi anni 90, poi, al ritorno da un camposcuola in montagna in cui aveva fatto l'animatrice, non riusciva a liberarsi di quella stanchezza e quelle poche linee di febbre. E poi quelle caviglie gonfie!!

Un'infezione trascurata di streptococco si era diffusa nel suo corpo e si era accanita sui suoi reni (lo stesso tipo di batterio che, dopo un solo giorno di vita, si era portato via il mio primo bambino, nato 3 anni prima).

Da qui inizia quello che nessuno di noi avrebbe mai immaginato: la malattia di Roberta. A quel tempo ero già sposato, era arrivata una figlia ad alleviare il dolore della perdita del primogenito e sentivo parlare di febbre, di accertamenti e, per la prima volta nella mia vita, anche di creatinina.
Nessuno di noi aveva dato troppo peso a questa situazione, che pensavamo fosse passeggera, fino a quando chiesero a mia sorella quale tipo di dialisi preferisse fare.

A vent'anni hai altri progetti rispetto all'attaccarti a una macchina che ti filtra il sangue. È stata una mazzata difficile da incassare sia per lei che per i miei genitori che da quel momento si sono messi a sua completa disposizione: la salute di Roberta veniva al primo posto e per lei si sono fatti in quattro.

Roberta, probabilmente, dentro di sé era devastata dalle prospettive che aveva davanti ma è stato in quei momenti che tutti noi abbiamo scoperto il suo carattere, la sua positività e la sua voglia di vivere, non di sopravvivere ma di mettersi in gioco, di non rinchiudersi in casa, di non isolarsi, di non autocommiserarsi e di combattere giorno per giorno.

Roberta ha scelto la dialisi peritoneale che poteva fare a casa. Questo l'ha aiutata ad essere abbastanza libera di gestire le sue giornate. Si è diplomata con i corsi serali, ha trovato un lavoro come impiegata e ha saputo guardare avanti, sempre impegnata con parrocchia, compagnia teatrale e sagre paesane.

C'erano tante persone già allora che le volevano bene sia in famiglia, che in paese, che in ospedale. Lei portava allegria, positività e leggerezza ovunque andasse. Roberta continuava ad essere un vulcano di energia nonostante tutto.

Una volta stabilizzata la situazione, si è iniziato a sentire una nuova parola: "trapianto". Dicevano che la possibilità di un trapianto era remota visti i pochi organi a disposizione più di 30 anni fa ma un po' alla volta iniziò a fare gli esami necessari per accertare la sua idoneità per l'iscrizione alla lista trapianti. Ricordo le sue parole: "intanto mi mettono in lista ma poi devo continuare a vivere come se non lo fossi", senza nutrire speranze che ci fosse un rene a disposizione in tempi brevi perché la compatibilità non è una cosa così scontata.

Non andò così in realtà: a neppure 2 anni dall'inizio della dialisi, nella notte del 7 ottobre 1997, arrivò LA telefonata.

"Parlo con i genitori di Roberta? C'è un rene disponibile per vostra figlia. Si presenti al mattino presto al centro trapianti di Treviso".
Io non ero presente, non abitavo più lì, ma so che quella notte hanno pianto tanto, tanto e ancora tanto.
C'era una operazione da fare, con tutte le incognite che ne conseguivano ma c'erano anche la possibilità e la speranza che la vita di Roberta non dipendesse più da quella macchina che per tre volte al giorno le filtrava il sangue.

La prima volta in cui l'ho vista dopo la famosa telefonata, era già uscita dalla terapia intensiva e aveva il suo rene nuovo. In quegli anni non era così scontato che il trapianto andasse a buon fine: la possibilità di rigetto era plausibile e le infezioni batteriche erano una costante con le quali i trapiantati dovevano combattere. In famiglia eravamo tutti col fiato sospeso. Lei, pian piano, superò tutte le varie fasi e, dopo qualche mese, si ritrovò ad essere una persona sana.

Da subito il suo pensiero è stato per quella giovane vita spezzata, per quei genitori che hanno permesso, nel momento più profondo del loro dolore, la donazione di quegli organi che avrebbero permesso a lei e a molte altre persone di continuare a vivere e migliorare la propria vita. Quel nuovo pezzo di lei che Roberta aveva nel suo addome, a destra, la faceva continuamente riflettere sul gesto di quei genitori. Il suo primo pensiero al mattino era per quella giovane, (una sua coetanea, le dissero) che in qualche modo continuava a vivere dentro di lei, e per i suoi cari, perché potessero essere ricompensati per il loro gesto di gratuità con la serenità che meritavano. Roberta poteva solo continuare ad essere sè stessa, un'esplosione di energia e positività, ed era il miglior modo di testimoniare la grandiosità di quel gesto e sottolineare l'importanza che la cultura della donazione permeasse il più possibile le nostre comunità.

A causa dei continui monitoraggi della sua salute, Roberta era sempre in contatto con i medici che l'hanno seguita fin dalle prime fasi della malattia e con il centro trapianti di Treviso. Con loro e con il reparto di nefrologia di Castelfranco Veneto si era instaurato un rapporto strettissimo e ne parlava come fossero parte della sua famiglia.
Roberta era la testimonianza perfetta per far capire alla gente quanto fosse importante cambiare quell'atteggiamento di paura e sfiducia nei confronti della scienza e della medicina. Bisognava convincere più persone possibili del fatto che tutte potevano, nel loro piccolo e senza nessun rischio, offrire una speranza di vita così come avevano fatto quei due genitori con lei.

In quella fase della sua vita io non avevo modo di vederla spesso. Avevo la mia famiglia, era nata anche la seconda figlia, eravamo indaffarati e ci vedevamo perlopiù alle varie feste e ricorrenze di una grande famiglia come la nostra.
In poche parole: la normalità.

Dopo qualche anno si sparse la voce che qualcuno ronzasse attorno a Roberta, che lei fosse presa e che potesse essere una bella storia. Tutti quei dubbi, che aveva dall'inizio della malattia, sulla possibilità di avere accanto a sé una persona che accettasse le sue fragilità e i suoi limiti, e con la quale condividere la sua vita, ebbero una risposta.
Il 7 ottobre 2006, giorno del nono anniversario dal trapianto, Roberta e Alberto convolarono a nozze. Provate solo ad immaginare la gioia di Giuseppe e Agnese, i genitori, e di noi tutti, nel vedere la nostra sorellina più piccola realizzare un altro sogno!

Come si sa, l'essere umano non mette mai limite ai proprio sogni. Roberta e Alberto sapevano cosa volesse dire essere trapiantata, sapevano che la salute di Roberta dipendeva da una serie di farmaci, tra i quali quelli antirigetto, che rendevano problematica una possibile gravidanza. Sapevano anche, però, che attorno a loro avevano tutti i medici che potevano aiutarli a capire se e come fosse possibile mettere al mondo una nuova vita senza rischiare la funzionalità del rene e quindi la sua vita.
Con i medici, dopo un paio di anni dal matrimonio, concordarono le tappe per dosare al minimo i farmaci e poter aprire una finestra per un possibile concepimento. Si affidò a loro e fu ripagata.

Non fu una gravidanza facile: il suo rene naturalmente ne soffriva ma riuscì ad arrivare a termine della gravidanza e far nascere la piccola Arianna.
Era il 2 febbraio 2009, a Treviso, Arianna era piccolissima ma sana. Un altro sogno di Roberta si realizzò.
Non so quanti casi come il suo ci fossero stati in Italia all'epoca ma, certamente, era una delle prime gravidanze e questo la rendeva ancor più la testimonianza di quanto la medicina stesse progredendo in quell'ambito.
Le terapie, i medicinali, le scoperte di nuove molecole in quegli anni, hanno fatto sì che i dieci anni di vita che, presumibilmente, avrebbe dovuto avere il rene, aumentassero a più del doppio e Roberta poté veramente vivere tutte le esperienze di mamma e moglie continuando anche a partecipare a tutte le iniziative possibili per far passare il messaggio positivo del dono. Lo si sa, una persona trapiantata è sempre un po' più fragile, le infezioni erano quasi una costante, escherichia coli una normalità ma la vita procedeva con l'intensità che per Roby era normale tra teatri e varie manifestazioni AIDO.

Passarono gli anni e iniziarono i primi sentori: tra una febbricola e l'altra il suo rene stava lentamente andando in sofferenza. Si iniziò allora a parlare di un possibile ritorno in dialisi e di rimettersi in lista trapianti. (Dopo 25 anni i numeri erano cambiati ma comunque sempre insufficienti)
I medici che la seguivano conoscevano benissimo Roberta ma anche la famiglia da cui proveniva e per loro non c'era alcun dubbio che, se lo avesse chiesto, qualcuno dei famigliari l'avrebbe potuta aiutare con la donazione da vivente. Lei non voleva farlo, era già soddisfatta e grata alla vita per aver avuto tutto ciò che una volta le sembrava impossibile e si sarebbe accontentata anche della dialisi.
Noi fratelli abbiamo iniziato a parlarne ognuno con la propria famiglia: i dubbi, i problemi e le conseguenze.
Quante volte, magari al lavoro finché il tornio girava, ho pensato se ero disposto a farlo; alla fine io con mia sorella ho vissuto pochi anni, lei mi vedeva come il fratello maggiore rompiscatole e ai tempi lei era una bambina e io un adolescente timido e introverso con i miei problemi. Io l'ho vista crescere, le preparavo i biberon, le facevo scherzi e dispetti.
Poi c'erano i discorsi che facevano i nostri genitori a noi figli più grandi: "ricordatevi che voi dovete dare il buon esempio e se potete dovete aiutare i più piccoli".
Quante volte l'ho sentito dire!! Ed era quella la frase a prevalere alla fine dei miei pensieri.

È arrivato poi il covid 19 e con esso tutte le paure e le conseguenze che ne derivavano. Tutti eravamo più fragili ma le persone trapiantate o quelle con qualche patologia come l'insufficienza renale, lo erano di piu.
Eravamo tutti isolati quando, una sera, ci è arrivato un messaggio WhatsApp nel gruppo di famiglia. Roberta, a malincuore, chiedeva se qualcuno di noi fosse disposto a donarle un rene ed effettuare una donazione da vivente, per la quale ci avrebbe dato tutte le informazioni possibili, pregandoci comunque di sentirci liberi di prendere qualsiasi decisione. Lei avrebbe capito.
Nessuno si è tirato indietro.

Bisognava partecipare a degli incontri informativi perché potessimo valutare meglio la decisione che ognuno di noi doveva prendere e, specialmente in periodo covid, non potevamo andarci tutti.
Si offrì quindi il marito Alberto, un altro mio fratello e, come le avevo promesso già una volta, mi feci avanti io. Alberto fu escluso poiché non aveva lo stesso gruppo sanguigno. Continuammo quindi io e mio fratello a fare una serie infinita di esami a Padova (uno dei pochi centri trapianti aperti in periodo covid per carenza di personale nelle terapie intensive) e alla fine venni scelto io. Ero compatibile al 100%. Praticamente eravamo due gemelli con 12 anni di differenza: il top per un trapianto!

A quel punto, una cosa era offrirsi, un'altra era sapere che toccava a te. In famiglia abbiamo parlato tanto dei dubbi, delle perplessità e delle paure. Quante discussioni! Più l'iter andava avanti, però, più elementi avevo (parlando con i medici di Padova) per considerare fattibile quel passo che Roberta mi chiedeva.
Ringrazio le mie donne (moglie e figlie) per avermi lasciato libero di prendere la mia decisione.
Il 6 aprile 2022, mentre ero al lavoro, vidi una mail sul telefono: il mattino dopo dovevamo essere al centro trapianti di Padova, a digiuno e tamponati Covid. L'ho chiamata, lei non voleva crederci. Non ha avuto, stavolta, il tempo per piangere perché dovevamo correre a fare i tamponi molecolari prima di sera.
Venerdì 8 aprile 2022, intorno alle 7:30, entrai in sala operatoria. Un paio di ore dopo entrò anche mia sorella in una sala attigua. Mi fu espiantato il rene in laparoscopia e trapiantato nella parte sinistra del suo addome, di fianco a quel rene ricevuto 25 anni prima.

Andò tutto bene e il rene partì subito. Il giorno dopo, dalla stanza della terapia semi-intensiva mi telefonò. Mi urlò il suo GRAZIE, GRAZIE E GRAZIE con tutte le energie che aveva. Mi disse che il "mio" rene aveva già filtrato sette litri di liquido. Stava meglio di me che come conseguenza post operatoria avevo un fortissimo mal di schiena.
Pian piano ci siamo ristabilti tutti e due e quando l'ho vista la prima volta a casa sua era tornata nelle sue migliori condizioni. Avevo fatto un bel lavoro!
Che soddisfazione è stata per me rivederla in forze! Quanto mi sentivo bene con me stesso e quanto ero orgoglioso del gesto che ero riuscito a fare!
Dopo anni difficili sua figlia Arianna ha potuto finalmente vederla in tutta la sua energia. Era da troppo tempo che non si sentiva così bene!
Organizzarono degli incontri AIDO per promuovere ulteriormente la donazione e assieme a lei raccontavo la mia esperienza. Era una forza della natura e a chi la incontrava diceva che non si sentiva così bene da quando aveva 16 anni. Iniziò un corso di pianoforte. Voleva iscriversi all'università. Nulla sembrava poter fermare questa sua voglia di recuperare il tempo perduto.

Purtroppo non andò così.

Un anno fa le fu diagnosticato, dopo dei forti mal di testa e dei discorsi un po' confusi, un gliobastoma ovvero un tumore al cervello.
È stata operata per asportare la massa tumorale ed è stata poi sottoposta a una serie di cure mirate. Noi ci abbiamo sperato fino all'ultimo che potesse farcela.

Povera la mia Roberta!
Riposa in pace.

In tanti ti hanno voluto bene. Resterai per sempre nei nostri cuori.

"To fradel pì vecio" Michele



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