Mi chiamo Marcello....

Mi chiamo Marcello, nato a Brunate in provincia di Como.

La mia malattia iniziò quando ero piccolo, ma nessuno se ne accorse.
Mangiavo poco ed ero sotto peso, cominciai a soffrire di forte mal di pancia e i dottori mi curarono all'intestino.
Dopo tante cure, diete ed esami, mi ricoverarono all'Ospedale Valduce, dove continuarono a torturarmi.
Forse, in realtà, il mio intestino stava benissimo, ma mi sottoposero a una biopsia intestinale.

Normalmente i bambini hanno un posto letto dedicato in pediatria, ma io ero ricoverato tra gli anziani, perché in pediatria non c'era più posto.
Solitamente i bambini vengono fatti addormentare durante la biopsia, ma a me trattarono come un adulto e me la fecero da sveglio.
Dovetti ingoiare una pallina d'acciaio con attaccato un tubo lungo un metro e quando lo ebbi ingoiato quasi tutto, il medico vi attaccò una grossa siringa vuota. Tirando lo stantuffo, si aprì una lametta, che tagliò un piccolo pezzetto di intestino. Poi il medico tirò fuori tubo con la pallina d'acciaio, dove dentro stava un minuscolo pezzettino di intestino da mandare in laboratorio.
Il pezzetto era però troppo piccolo per essere esaminato, perciò avrei dovuto ripetere l'esame una seconda volta.
Volevo nascondermi, ma non sapevo dove.

La seconda volta fu una tragedia, la pallina non andrò nell'intestino come avrebbe dovuto, ma nello stomaco.
I medici non sapevano cosa fare e decisero di mandarmi a casa con una dieta senza sale, forse senza una motivazione precisa.

Passarono gli anni, divenni adulto, ma continuai a stare male.

Mi mandarono a Milano, dove non c'era posto tra gli adulti e mi ricoverarono all'Ospedale De Marchi, un ospedale pediatrico.

Mi sottoposi per la terza volta a biopsia intestinale, questa volta da addormentato.

Dall'esame risultò che l'intestino non aveva problemi di sorta.
Mi recai quindi in altri ospedali, finché scoprirono che la malattia non era davanti, ma dietro: soffrivo di insufficienza renale cronica e i miei reni funzionavano al 35%.

Mi mandarono a casa con una dieta aproteica, cioè senza proteine.

Con il passare del tempo, decisi di andare in palestra per aumentare di massa.
L'istruttore mi vide piccolo magro, ma riuscì a farmi sollevare parecchio peso.
Mi chiese se volessi partecipare a una gara di pesi mosca, categoria uomini che non superano i 52 kg, poiché io ne pesavo 50.
I medici mi diedero il permesso, ma mi proibirono di prendere proteine o altri integratori.
Accettai la sfida e, grazie alla mia costanza, ne uscii vincitore.
Mentre tutti i miei avversari si imbottivano di proteine, io gareggiavo mangiando riso in bianco.
Ciononostante , riuscii a vincere i campionati italiani di pesistica, facendo esami del sangue tutti gli anni, finché la mia creatinina non raggiunse un valore del 1000% rispetto a quello avrebbe dovuto misurare.

Ero diventato uremico terminale, condizione in cui non funziona né il rene, né la vescica.

A quel punto ero arrivato a un bivio: o il trapianto di rene, o la dialisi.

Non essendo gli organi facilmente reperibili, iniziai la dialisi.

Prima di cominciare, mi sottoposi a un piccolo intervento al braccio sinistro, per collegare l'arteria a una vena: questo serve a generare una pressione sufficiente da far uscire il sangue e farlo passare per un filtro, dopo il quale un'altra pompa lo riporta nel corpo privo di acqua e impurità.

Feci la dialisi per due anni, tre volte a settimana, quattro ore al giorno.
La dialisi mi costrinse ad abbandonare la palestra, ma non mi diedi per vinto.

Cominciai ad andare in bicicletta, alzandomi alle quattro del mattino per andare al lavoro.
Dopo otto ore, sempre con la bici, andavo in ospedale a fare la dialisi, poi tornavo a casa.
Pareva fossi l'unico, tutti gli altri andavano a fare dialisi in ambulanza, con la macchina propria, o si facevano portare dai parenti o dal servizio di assistenza.

Io però stavo bene, perciò feci due anni avanti e indietro in bici, finché non ricevetti una chiamata dall'ospedale Niguarda di Milano...era arrivato un rene compatibile!

Lasciai il lavoro e corsi immediatamente a Milano.

Dovetti attendere il prelievo di fegato, cuore e polmoni, che avevano la precedenza su quello del rene, perché destinati a trapianti salvavita.

Il giorno dopo fui trapiantato.

Mi svegliai in una stanza asettica, chiusa, dalla quale potevo parlare con i parenti solo attraverso un vetro.
Dopo venti giorni mi mandarono a casa, ma ero sempre magro.
Nonostante assumessi dosi da cavallo di cortisone, non mettevo su peso, non mi gonfiavo, al contrario degli altri che aumentavano di peso a vista d'occhio.
Chiesi il permesso di ritornare in palestra, allora il dottore mi guardò e mi disse che normalmente, per un trapiantato, la palestra è vietata. Questo perché mi sarebbe potuto cadere un peso addosso, oppure mi sarebbe potuta aumentare la pressione.
Il mio caso fu preso in considerazione e mi diedero il permesso, ma con alcune restrizioni.
Così mi iscrissi nuovamente in palestra e, dopo un duro allenamento, riuscii finalmente a vincere i campionati di sollevamento pesi per la categoria sotto i cinquantadue chilogrammi.
Partecipai al campionato pesi mosca, diventando campione mondiale di pesistica.

Mi impegnai a conoscere parecchi trapiantati, i quali mi invitarono ad andare in bicicletta con loro.

Percorremmo le strade Bergamo- Roma, Innsbruck - Verona e la maratona delle Dolomiti.

Feci anche una vacanza andando da Grumello a Gerusalemme per 4500 chilometri in bici.
Feci poi 1001 miglia in 158 ore e 12 minuti.

Ora sono passati ventiquattro anni, trascorsi andando nelle scuole di tutta Italia a raccontare agli studenti la mia storia di vita.

(Testimonianza di Marcello)